Se l’oggettività (in realtà inesistente ma costruita a livello mediatico, politico, ideologico) è l’ideale a cui le scienze sociali si modellano, il soggetto si forma proprio su questa oggettività, che diviene una forma di verità a cui tendere.
Questo ideale spiega perché le statistiche hanno preminenza sui saperi locali, concreti, vissuti, perché i saperi esteriorizzanti e biologizzanti prevalgono sulle scienze umane, o ancora perché non si tiene conto degli effetti distruttivi della valutazione sull’individuo, se non come possibili “rischi psico–sociali” che minacciano l’ordine sociale e giustificano il trattamento speciale dei cosiddetti “anormali” o “disadattati”. Secondo Del Rey non vi sono forme di resistenza a questi processi valutativi e performativi dell’individuo: la pedagogia, per esempio, quando vuole introdurre l’auto–valutazione, diviene in realtà auto-normalizzazione, la psicoterapia deve essere breve, perché la psicoanalisi è una cura fondata sulla soggettività, sulla narrazione di sè, e richiede tempo, dedizione.
Così la valutazione delle competenze, tanto osannata come innovazione didattica in ambito scolastico e che avrebbe come obiettivo un affinamento del sistema valutativo, in realtà è peggiorativa perché non permette alcuna interpretazione: valutare le competenze senza considerare i contesti e le singole attitudini aumenta i danni della valutazione assunta a paradigma sociale dominante. Non si valutano più soltanto le nozioni acquisite ma addirittura le inclinazioni, le capacità sociali e relazionali, le abilità cognitive, insomma l’individuo nei propri aspetti più intimi e soggettivi. Come si faccia a non vedere quanto sia pericoloso questo discorso così “innovativo” lascia attoniti e tristi. Si prega di leggere o ri-leggere Foucault, “Sorvegliare e punire”.
La valutazione e le “competenze”
