Sulla scuola riporto le pagine del: Manuale di neuropsichiatria dell’età evolutiva, di G. Mastrangelo, 1999.
La scuola rappresenta il primo ambiente fortemente competitivo nel quale tende a prevalere nei riguardi del bambino la neutralità affettiva anziché il coinvolgimento emotivo. In pratica essa presenta improvvisamente al bambino una realtà certamente frustrante rispetto alla situazione familiare, non tiene quasi mai conto delle singole individualità (tutti devono iniziare la scuola in un determinato periodo, tutta la classe deve iniziare a svolgere quel programma nello stesso giorno, ecc.), del bagaglio emozionale con cui il bambino giunge a scuola e, infine, spesso i suoi programmi non sono proporzionati alle effettive capacità intellettive che il ragazzo ha per lo stadio evolutivo che attraversa.
Queste osservazioni possono trovare riscontro sia nei costrutti psicologici di Piaget, secondo il quale l’intelligenza segue sempre allo sviluppo, sia in quelli psicodinamici, nei quali il sovraffollarsi degli stimoli produce situazioni nevrotiche, sia in quelli etologici, dove l’incongruità degli stimoli forniti agli animali determina vere proprie difficoltà di apprendimento per estinzione della ricettività dello stimolo (Lorenz).
Quanto finora detto potrebbe sembrare valido solo per la scuola materna e primaria: niente di più falso!
Anche gli altri gradi di scuola hanno insiti delle spinte al disadattamento. In particolare, per la scuola secondaria di primo grado, segnaliamo: l’adozione di programmi fondati sul pensiero ipotetico-deduttivo, quando non tutti ragazzi hanno superato lo stadio del pensiero concreto, e la scarsa considerazione che si tiene del fatto che l’adesione all’autorità passa da una cieca accettazione a un contegno fortemente critico nella pubertà e nell’adolescenza. Ciò dovrebbe comportare una netta modifica del rapporto interpersonale, una ristrutturazione più adeguata al momento maturazione degli allievi, del rapporto autorità-libertà.
Il superamento di questa partenza svantaggiata che, non a caso, sia nella scuola primaria sia nella secondaria, è affidata solo alla maturità e alla preparazione psico-pedagogica personale degli insegnanti, perché purtroppo, ancora oggi, non sono coadiuvati dalla costante azione dell’equipe biopsicosociale, nè hanno una specifica preparazione durante i corsi universitari.
Anche i fattori legati alla ambiente socioculturale più vasto in cui il ragazzo vive sono sommamente importanti nel determinare un aggiustamento scolastico specialmente dove la scuola ancora selettiva. Pensiamo, ad esempio, alle condizioni socio-economiche disagiate, alla miseria, alle negative sollecitazioni di alcuni ambienti in cui alcuni ragazzi sono costretti a vivere. Infatti, le recenti ricerche ci dicono che circa la metà del 20% di alunni che mostrano disagio scolastico ha subito carenze pedagogiche, errori di valutazione, emarginazione sociale, eccetera.
Noi siamo del parere che il superamento delle varie crisi evolutive con il conseguente adattamento alla fase successiva sia preceduto da una situazione, sia livello psico-affettivo che a livello di prestazione pratica, generalmente caotica e spesso improduttiva, se non del tutto improduttiva. Tutto ciò può far sì che anche ragazzi in possesso di normodotazione intellettiva non riescano ad esprimere, a concretizzare le proprie potenzialità nell’ambito della scuola: si potrebbe determinare non solo ritardo scolastico, ma spesso si giunge al rifiuto, alla rinuncia, per tutte le negatività su esposte.
È una situazione caratterizzata da aspetti molteplici e fra questi prevale il grande peso che ancora si dà al concetto di rendimento scolastico, mentre ancora troppo poco si tiene conto dell’influenza delle motivazioni nei processi di apprendimento, il tempo sufficiente per “avere” l’apprendimento.
Ciò è tanto più necessario se si considera l’estrema variabilità di situazioni psicologiche e fisiche tipiche dell’età evolutiva. Altro elemento disadattante della scuola, in particolare superiore, sia per gli allievi normodotati che per quelli portatori di handicap, è il conflitto, non ancora risolto, tra l’acquisizione delle conoscenze di base e specifiche di un determinato lavoro. La scuola dovrebbe dare non tanto nozioni, ma il metodo di studio e di comprensione della realtà. L’acquisizione del metodo sarà facilitato anche portando a una certa unità e diversità di linguaggio e alla validazione scientifica delle informazioni. Dare un metodo, dare una cultura di base in cui le discipline umanistiche hanno pur sempre una loro validità per gli schemi cognitivi che danno, significa dare al giovane uno spessore culturale, ma anche una valida flessibilità nelle scelte, necessaria sia in rapporto all’evoluzione dinamica della sua personalità sia alle trasformazioni sociali e, in particolare, quelle del mondo del lavoro.
Per concludere, possiamo dire che nel momento in cui la famiglia trasferisce parte del suo compito educativo alla società, in particolare la scuola, questa deve essere in grado di assumersi le sue responsabilità, di intervenire positivamente.
La scuola può essere considerata intermediario fra la partenza (la famiglia) e il punto di arrivo (la società): dunque deve interferire attivamente sulla personalità in formazione del ragazzo con precisi interventi pedagogici, che, in un primo momento, devono concretizzarsi in un decondizionamento dalla stessa eccessiva protezione familiare, in seguito in un apprendimento strutturale e in un reale e globale orientamento.
Bisogna proporre al ragazzo un insegnamento formativo, non nozionistico-informativo, in un ambiente gratificante, rassicurante, valorizzante.
Quando ciò non avviene, la scuola può essere essa stessa disadattante anche per il normodotato, e non rappresenta più per il ragazzo un gruppo di riferimento, ma solo di appartenenza, tanto più quando ci troviamo di fronte a ragazzi con difficoltà.